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Massimo Angelini
Da un solo tubero di 150 g, piantato a fine luglio in un piccolo borgo montano dietro la nuca di Genova, sono stati ricavati 7 kg di patate di grande calibro (47 volte). E’ un risultato eccezionale (non ho mai sentito prima nulla di simile, e non solo in Liguria) raggiunto da Andrea Guala del Minceto di Ronco Scrivia attraverso un tubero di Rubra Spes: una varietà ottenuta a partire dal seme di una bacca di patata da Fabrizio Bottari, contadino colto e preparato della Val d’Aveto. Tra i coltivatori è ancora poco noto che dai semi di una bacca di patata (pur sapendo che non tutte le varietà producono bacche) si possono ottenere decine di nuove varietà, frutto di incrocio genetico e pertanto uniche, mai esistite prima e che non si ripresenteranno più: proprio – ed è solo un esempio – come i figli, unici e irripetibili, così come lo è ciascuna persona.
C’è una bellezza nell’esprimere l’inesauribile varietà della vita, che è la bellezza dei mille colori, dell’arcobaleno, ma anche la bellezza di muoversi in controtendenza in un campo – quello dell’agricoltura prevalente – dove la varietà si restringe ogni giorno di più verso l’uniformità delle colture. Le varietà di mele sono centinaia, ciascuna più adatta di un’altra a un particolare terreno, a un particolare microclima, a un luogo specifico, eppure – per ragioni di economia di scala, di standardizzazione dei processi produttivi e di distribuzione – sui banchi dei negozi non ne troviamo più di 5 o 6: le stesse in tutto il mondo. E come per le mele, così è per il frumento, per il mais, per i fagioli, per le patate, per ogni genere di frutta o di specie coltivata, da campo o da orto. Alla capacità inscritta nel codice della natura di esprimere la più ampia e illimitata molteplicità di forme, colori e comportamenti, la nostra civiltà ha risposto con la progressiva restrizione delle piante commestibili a poche specie e, all’interno di ciascuna specie, a poche, pochissime forme. Il mercato e la natura pare che seguano vie diverse – cioè, che divergono -, vie orientate verso direzioni che progressivamente si allontanano.
E quello che oggi accade in agricoltura non è che un aspetto di ciò che in generale testimonia il nostro tempo: un’apparente marcia dell’umanità verso la riduzione, verso l’uniformità, verso le monocolture e le monoculture, verso un solo modo di vivere (ma anche di nascere e poi di morire), verso un solo gusto, una sola idea di società, una sola narrazione di civiltà, una standardizzazione degli stili di vita e di modelli di consumo pressoché uguali (stessi mobili, stessi abiti, stesso cibo, stessi programmi, stesse distrazioni, stesse mete) alle più differenti latitudini, indifferenti agli orientamenti personali e ai sogni di ciascuno, eterodirette da chi controlla i processi di produzione e, più in generale, il mercato, con tutto il corollario di non conoscenza, di intolleranza e persino di ostilità per ciò che sfugge allo standard, ai modelli dominanti, per ciò che è differente (ma solo differente, vario, non diverso!).
Qualunque strada riconduca alla riscoperta e al gusto della varietà, delle molte forme, dei mille colori, è un toccasana, un antidoto al grigiore, alla monotonia e persino, più in generale, a derive antidemocratiche, quelle che per loro intima natura non possono ammettere le differenze, le idee e i comportamenti difformi, e gli scostamenti dalla regola. Su questa strada, nel piccolo di un settore particolare, si muove anche l’attività di quei coltivatori che recuperano le molteplici varietà ignorate dal mercato e, come Bottari, addirittura le sanno moltiplicare, dando vita a ciò che prima era solo una possibilità: come la patata da seme-vero chiamata Rubra Spes. E se poi si scopre, come racconta il raccolto ricavato ieri al Minceto, che nello sforzo di moltiplicazione affiorano colture che – senza trucchi e forzature – possono essere anche straordinariamente produttive, e che l’attenzione alla varietà oltre che bellezza genera anche più vita, beh… tanto meglio!